Foto: Elisaboba

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Su molti siti web si leggono frasi che ci fa piacere leggere:
“Il mancato insegnamento della lingua napoletana e il suo andarsi man mano perdendo e degradando di valore, ha indotto l’UNESCO a riconoscerla come un patrimonio da tutelare non solo per l’Italia ma per il mondo intero.”
“Il napoletano è secondo, nella nostra penisola, soltanto alla lingua ufficiale, l’italiano, per diffusione sull’intero territorio nazionale.”

Pensi che se lo dice l’UNESCO dev’essere vero. Poi continui a leggere:
“Dialetto diffuso in tutto il sud Italia, ma parlato anche in Abruzzo, Molise, Lazio”

E qui ti viene qualche dubbio: da quando in Abruzzo, Molise e Lazio si parla napoletano? Così provi a verificare la notizia e scopri che molti siti di informazione la riportano tale e quale. Cioè, non simile, ma proprio uguale, con le stesse frasi: hanno copiato tutti dalla stessa fonte. Di solito, è un forte indizio che si tratti di una notizia falsa. Ma allora che dice l’UNESCO, veramente, sul napoletano?

Nell’elenco dei “Patrimoni Orali e Immateriali dell’Umanità” il napoletano non c’è. Nell’atlante delle lingue in pericolo, c’è invece il “South Italian“, Italiano del Sud, che comprende dialetti marchigiani, abruzzesi, molisani, campani, lucani, pugliesi e calabresi. E questo South Italian viene considerato sinonimo di “Neapolitan“.
Certo, se li consideri tutti insieme, i dialetti del Sud coprono una popolazione così ampia che per forza diventa la seconda lingua dopo l’italiano. Solo che l’Italiano del Sud non esiste. O si?

nap_ethnoIl raggruppamento dei dialetti alto-meridionali è definito secondo la classificazione internazionale delle lingue ISO 639-3 sotto il codice “nap“, che sta per “napoletano” o “napoletano-calabrese“. Questo gruppo linguistico è parlato infatti nell’area geografica che corrisponde all’ex Regno di Napoli, con l’esclusione della Sicilia, del Salento e di parte della Calabria (aree dei dialetti del gruppo meridionale-estremo).
In questa accezione, “napoletano” non indica il dialetto di Napoli ma l’intero gruppo linguistico, che è normalmente indicato anche come “italico-meridionale“: South Italian, appunto.

Dunque, quanto riportato nei documenti dell’UNESCO è corretto. Completamente fuori strada è invece l’interpretazione di qualche giornalista che, poco competente su questioni glottologiche, ha scritto un articolo prendendo fischi per fiaschi. Tutti gli altri hanno poi semplicemente copiato e rilanciato la notizia falsa senza neanche controllare. Ed ecco che sulle vostre bacheche Facebook circolerà per anni una nuova leggenda metropolitana.

Riassumendo, il dialetto napoletano non è riconosciuto patrimonio dell’UNESCO, ma solo uno dei tanti dialetti italiani “in pericolo”. E non è nemmeno la seconda lingua parlata in Italia. In effetti, tecnicamente, non è una lingua. La distinzione non è qualitativa, sia chiaro, ma è legata all’uso. Il napoletano non è usato in uffici pubblici, scuole o amministrazioni ed è parlato in un’area geografica limitata. Per questo è – tecnicamente – un dialetto.

Però il napoletano ha una storia antica e nobile e continua ad averla anche oggi, soprattutto nel teatro, nella letteratura, nel cinema, nella musica. Diffondere false notizie come questa sull’UNESCO – anche se stuzzicanti per il partenopeo orgoglioso che c’è in noi – non aggiunge nulla al prestigio della nostra lingua (ops!).
Il napoletano non ha bisogno di etichette e vane vanità, ma di tutela. C’è bisogno di perpetuarne la tradizione linguistica e promuoverne la conoscenza e la diffusione, insieme a tutto l’immenso patrimonio culturale che vi è legato.
Come? Per esempio, con l’attività teatrale. Ecco, questa, nel nostro piccolo, è la “missione” trentennale della Filodrammatica Partenopea a Verona.

Fonti principali: