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Le usanze di fine anno. 2016

Foto: Aleks Falcone

Il duemilasedici e il duemiladiciassette si toccheranno a mezzanotte di stasera. In tutto il mondo sarà celebrato il passaggio con i riti del caso – concerti, balli di gruppo, fuochi d’artificio – e ovviamente le cene che precedono i brindisi.Immancabili, le tradizionali superstizioni legate ad auspici di buona fortuna o presagi di sventura. Spesso sono credenze così antiche e radicate che nemmeno i più scettici possono sfuggirvi.

A tavola, per esempio, ci sono le lenticchie obbligatorie. Si devono mangiare preferibilmente a mezzanotte, sfidando il bruciore di stomaco, perché portino ricchezza. L’origine di questa usanza è un rito pagano, però non ci badano nemmeno i preti e scucchiaiano allegramente.
C’è anche l’uva. Bisogna mangiarne solo 12 acini, uno per ogni rintocco dell’orologio nell’ora fatidica, e i chicchi di melograno, frutti altrettanto indicati per assicurarsi abbondanza nell’anno nuovo. Si parla un gran bene anche di fichi secchi e datteri, che per qualche motivo simboleggiano protezione.

Certo, nulla vieta di farsi bistecche o risotti, stasera. Tanto più che la lenticchia non risulta aver mai arricchito nessuno. Al contrario, Esaù, secondo il racconto biblico, ci rimise parecchio. Quindi stasera mangiate come vi pare, senza timore per quel che accadrà il prossimo anno. Magari evitando pollo o tacchino, che sembra portino malissimo. Siete avvisati, eh.

Ed ecco che, dopo cena, arriva il momento fatidico, scandito dal capofamiglia: “dieci, nove, otto…“, Francuccio prepara le bottiglie di spumante, “…sette, sei…“, tutti prendono un bicchiere, “…cinque, quattro…“, Cinzio è rimasto senza e si lamenta, “…tre, due…“, zia Cosimina non sente niente da decenni e sta già tagliando il panettone, “…uno, (pausa suspance) e buonannonuovo!“, tutti urlano o fanno auguri a casaccio o entrambe le cose. Cinzio è l’unico seduto. Gesticola perché ha acchiappato il tappo con la faccia, anche quest’anno.

Zia Cosimina non si è accorta di niente. Non brinda dal 1989, quando ancora sentiva saltare i tappi di spumante. Ignorare il calendario però le fa bene: guardatela, 98 anni e sembra appena ottantenne.

Durante gli istanti confusi del brindisi, fate attenzione ai familiari superstiziosi. Si dice che porti fortuna per tutto l’anno intingere un dito nel bicchiere di spumante e toccare dietro le orecchie di qualcuno. Noi dubitiamo che tali pratiche siano realmente efficaci, ma abbiamo la fondata certezza che sia poco igienico lasciare che qualcuno infili le mani nel vostro bicchiere. Salute!

In ogni caso, auguri di buon duemiladiciassette dalla Filodrammatica Partenopea.
Sparate facezie, non petardi.

 

https://www.youtube.com/watch?v=dDya1oamf70

Ah, le villanelle napoletane!

La “villanella” o “villanescanapoletana è una forma di composizione musicale popolare che nacque e si affermò nel XVI secolo e che ebbe grande importanza nella storia della canzone napoletana classica.

L’origine delle villanelle è legata alle antiche poesie popolari napoletane. Di esse, infatti, mantengono almeno inizialmente la metrica in strofe formate da un verso libero preceduto o seguito da uno o due distici in rima baciata. Si trattava per lo più di endecasillabi, anche se è documentato l’uso di lunghezze diverse.

Successivamente apparvero delle varianti che aumentavano il numero dei distici o dei versi liberi. Si aggiunse anche un ritornello e furono adottate strofe diverse.

La musica che accompagnava questi canti era assai semplice ed originariamente eseguita a cappella. Di solito era costituita da tre voci, con la prima che contiene la melodia e le altre due ad accompagnarla e sostenerla. Questa struttura consentiva di eseguire le due linee di accompagnamento su uno strumento a corde, in modo che il cantante potesse accompagnarsi da solo.

“Sto core mio se fosse di diamante
Sarrìa spezzato per tanto dolore
Quanto ne provo e sento a tutte l’ore.”
(Orlando Di Lasso, ‘Sto core mio’)

Le villanelle erano scritte soprattutto in napoletano. L’argomento era spessissimo l’amore, raccontanto in modo rustico, talvolta esplicito, facendo abbondante uso del comico, della satira e del doppio senso. L’aspetto parodistico è un carattere tipico della villanella, in evidente contrasto con la raffinatezza di altre forme di composizione polifonica. Ciò non impedì, comunque, che fossero composte villanelle d’argomento amoroso più delicate e intime.

Nella stessa epoca altre forme musicali come la frottola, lo strambotto, il canto carnacialesco toscano o la villotta veneta presentavano una struttura analoga ed ebbero un discreto successo, che però non uscì dall’area geografica d’origine. Diversamente, la villanella napoletana divenne popolarissima in tutta Italia e si diffuse anche in Europa.

ritratto di Adrian Willaert (Foto: Wikipedia)

“Vecchie letrose,
non valete niente
Se non a far l’aguaito per la chiazza.
Tira, tira, tir’alla mazza,
Vecchie letrose, scannaros’e pazze!”
(Adrian Willaert, ‘Vecchie letrose’)

Il motivo di tale successo è stato attribuito alla lingua napoletana, che si prestava con uguale malleabilità al tema d’amore, alle invettive più feroci ed alla satira, ma anche al ritmo particolarmente vivace, specie quando venivano alternate battute binarie e ternarie. Di certo contribuirono non poco alcuni autori fiamminghi di villanelle, primo fra tutti Roland de Lattre (conosciuto come Orlando Di Lasso, 1532-1594), che viaggiavano per le corti europee.
Uno di essi, Adrian Willaert (1490-1562) fu colui che portò  la villanella a Venezia, dove fu maestro di cappella alla basilica di San Marco. In questa città furono stampate le prime raccolte di testi delle villanelle napoletane e da qui si diffusero in tutta Europa.

“Tutto lo dì mi dici: «Canta, canta!»
Non vedi ca non posso refiatare!
A che tanto cantare?
Vorria che mi dicessi «Sona, sona!»
Non le campan’a nona
Ma lo cimbalo tuo
Se canto ri-ro ro-ri-ro-gne
S’io t’haggio sott’ a st’ogne.”
(Orlando Di Lasso, ‘Tutto lo dì’)

Foto: vesuviolive.it

Questi compositori erano tra i massimi esponenti della musica polifonica rinascimentale, maestri nell’arte del contrappunto, ma non disdegnavano di avere in repertorio composizioni assai più semplici e di carattere popolare come le villanelle in napoletano, composte su testi anonimi ma di probabile origine partenopea. Alcune di esse, sorprendentemente, sono ancora note ed eseguite.

L’enorme successo della villanella fu anche la causa della sua fine, alla fine del XVI secolo. Diffondendosi infatti in ambienti culturali diversi da quello dove ebbe origine, acquistò caratteri via via più raffinati. Le semplici strutture musicali andarono assumendo una maggiore complessità e poi il testo, lontano da Napoli, perse la lingua napoletana per diventare un italiano più o meno letterario. Continuavano a chiamarsi villanelle, ma si erano trasformate in qualcosa di profondamente diverso, come il madrigale.
A Napoli, tuttavia, le villanelle continuarono ad essere composte ancora a lungo e l’ultima edizione a stampa è documentata nel 1618.

 

 

 

Presentato a Villafranca “Natale in casa Cupiello” per Telethon

Il vice sindaco Nicola Terilli ed il regista Beppe Morisi (Foto: VillafrancaWeek)

Alle 12:00 di ieri mattina, il nostro regista, Giuseppe Morisi, ha partecipato alla conferenza stampa convocata al municipio di Villafranca di Verona per presentare lo spettacolo di domani sera, a favore di Telethon 2016.

Di seguito, il comunicato pubblicato sul quotidiano online www.villafrancaweek.it

 

 

Andrà in scena giovedì 15 dicembre presso la Sala Alida Ferrarini di Villafranca lo spettacolo teatrale “Natale in casa Cupiello”.

Come ogni Natale Luca Cupiello prepara il presepe, fra l’indifferenza della moglie Concetta ed il rifiuto del figlio Tommasino. Il clima di festa è turbato dai soliti litigi fra Tommasino e lo zio Pasqualino e dai problemi familiari di Ninuccia, la figlia, decisa a lasciare il marito Nicolino per l’amanre Vittorio. Concetta riesce a dissuaderla e a farsi consegnare la lettera indirizzata al governo, ma Luca, ignaro di tutto, la trova e gliela recapita. Quando i due rivali si trovano faccia a faccia al pranzo della Vigilia, lo scontro è inevitabile.

“Natale in casa Cupiello” è una tragicommedia in tre atti di Eduardo de Filippo, con la regia di Beppe Morisi.

Lo spettacolo andrà in scena giovedì 15 dicembre alle ore 21 presso la Sala Alida Ferrarini di Villafranca. L’ingresso è gratuito, ma chiunque potrà fare una donazione e l’intero ricavato verrà interamente devoluto a favore della Fondazione Telethon per la ricerca scientifica sulle malattie genetiche.

Per informazioni, clicca qui.

Fi.Pa. per Telethon 2016

Dopo l’esperienza di San Bonifacio del 2015, anche nel 2016 il nostro “Natale in casa Cupiello” va in scena per contribuire all’annuale raccolta fondi della Fondazione Telethon per la ricerca sulle malattie genetiche rare. La Fondazione Telethon dal 1990 si occupa di gestire e promuovere le iniziative di raccolta fondi a sostegno della ricerca scientifica. Le malattie genetiche rare conosciute sono oltre seimila. Riguardano in tutto meno di una persona su dieci nel mondo e colpiscono in prevalenza (70%) i bambini nei primi cinque anni di vita. Si tratta spesso di patologie che causano grande sofferenza ai piccoli che ne sono colpiti ed alle loro famiglie.
L’unica strada per migliorare le condizioni di vita degli ammalati è quella della ricerca scientifica per trovare nuove cure. La scarsità di investimenti nella ricerca non consente di conoscere i meccanismi e le cause di molte malattie genetiche rare, ma la ricerca finanziata dalla Fondazione Telethon sta consentendo anno dopo anno di ottenere progressi importanti.

Puoi sostenere la raccolta fondi di Telethon lasciando la tua offerta direttamente ai volontari che troverai all’ingresso del Teatro Alida Ferrarini di Villafranca di Verona giovedì 15 dicembre, prima di assistere allo spettacolo che ti offriremo per ringraziarti della tua generosità.

L’inaugurazione di Pompei per Tutti

Foto: Repubblica.it

Venerdì scorso, alla vigilia della Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità, è stato inaugurato nell’area archeologica di Pompei uno dei più innovativi percorsi per disabili al mondo: con i suoi oltre tre chilometri di lunghezza è il più lungo in Italia ed uno dei primi in assoluto.

Si tratta di un percorso attrezzato e privo di barriere architettoniche che si sviluppa lungo le strade principali della città antica. Persone con difficoltà motorie, genitori con passeggino, anziani, infortunati e tutti i turisti che preferiscono un itinerario più confortevole potranno accedere agli edifici più importanti in modo agevole e sicuro superando dislivelli e ostacoli. Sui marciapiedi ai lati delle strade in acciottolato romano, difficili da percorrere con le carrozzine, è stata realizzata una nuova pavimentazione a base di calce idraulica priva di cemento, e sono state collocate passerelle ed attraversamenti metallici. Il tutto nel pieno rispetto dei monumenti da preservare e con la supervisione della Soprintendenza Speciale di Pompei.

Foto LaPresse/Marco Cantile – da www.meteoweb.eu

L’infrastruttura tecnologica del progetto “Pompei per tutti” prevede braccialetti elettronici intelligenti chiamati “Con-Me” dotati di GPS, Bluethoot, WiFi e pulsante SOS, predisposti per localizzare immediatamente il portatore per prestargli soccorso in caso di necessità. Sensori ambientali collocati nel sito archeologico segnaleranno eventuali situazioni di pericolo legate alle condizioni atmosferiche (bagnato, scivoloso, polveroso). I visitatori non vedenti o ipovedenti, inoltre, potranno utilizzare, sempre tramite il braccialetto elettronico, le audio-guide appositamente realizzate.

Nel 2016 il sito archeologico di Pompei ha superato per la prima volta i tre milioni di presenze annuali. E non è utopia ipotizzare un anno ancora migliore nel 2017.

https://www.youtube.com/watch?v=SlzP2ZLaymo

Il senso di Cupiello per il presepe

wp-1478875139571.jpegCosa può dire al pubblico di oggi una commedia di oltre ottanta anni fa? O, meglio, come fa una commedia a restare popolarissima tanto a lungo? Sicuramente l’elemento comico ha avuto un peso non indifferente. Ma c’è molto di più, a partire dalla stessa composizione del testo definitivo, di cui abbiamo parlato in un precedente articolo.

Qui ci limiteremo a riportare alcuni giudizi critici per mostrare come, pur nelle diverse interpretazioni, “Natale in casa Cupiello” non abbia mai smesso di stimolare e divertire critica e pubblico.

La citazione che segue risale alla versione in due atti del testo (del 1932: il terzo atto fu aggiunto solo due anni dopo). È tratta da un articolo pubblicato il 10 aprile 1932 sul Corriere della Sera e firmato dal grande drammaturgo e critico teatrale, veronese d’origine, Renato Simoni. Simoni fu uno dei primi, probabilmente, a cogliere, dietro l’umorismo farsesco del testo, un livello più profondo di rappresentazione della realtà.

“Per due atti questa famiglia Cupiello ci esilara con i suoi contrasti, in mezzo ai quali Luca si muove, creando, con ogni sua azione e ogni sua parola, una comicità che s’aggira su due o tre motivi principali che sa abbandonare e riprendere al momento opportuno, traendo da ogni ritorno ad essi, e dalla stessa insistenza di questi ritorni, un’allegria martellante e martellata che oscilla tra la farsa e il grottesco, ma nella quale c’è un fondo di ottima osservazione umoristica. [..]
L’autore è passato audacemente, anzi, temerariamente, dalla farsa a espressioni e rappresentazioni d’un realismo a tratti penoso. […]
La commedia ebbe la fervida e animata e colorita interpretazione che è caratteristica della Compagnia dei De Filippo. Eduardo impersonò Luca con quel suo modo largo di accerchiare il proprio personaggio e di definirlo, come conquistandolo dal di fuori, con l’accumulazione dei particolari entro i quali esso si trova, poi, racchiuso e formato”. (Renato Simoni, Corriere della Sera, Milano, 10 aprile 1932)

Nel 1934 Eduardo aggiunge il terzo e conclusivo atto al “Natale…”. Ormai la trasformazione dalla farsa a qualcosa di completamente diverso è compiuta. Tale evoluzione è ben descritta da Ermanno Contini, che ne parla sul Messaggero, il 12 giugno 1937, sottolineandone gli aspetti che continuano a catturare il pubblico del XXI° secolo.

“In cinque anni la fantasia di Eduardo ha lavorato senza soluzioni di continuità portando a compimento una vicenda e dei caratteri con la stessa coerenza e unità che avrebbe potuto dare loro per mezzo di una elaborazione rapida e continuativa. Segno di grande vitalità artistica che riafferma brillantemente le doti eccezionali di questo nostro attore autore. […] Da un atto farsesco è venuta fuori una commedia ricchissima sì di comicità, ma anche di umanità, patetica, amara, commossa. Il lavoro insomma ha guadagnato nell’accrescersi. Ha preso sostanza ed è diventato di qualità” (Ermanno Contini, Il Messaggero, Roma, 12 giugno 1937).

nataleincasacupiello_fipa-081215-518Il risultato, dunque, è un’opera che pur mantenendo l’apparenza e la comicità di una commedia, sotto la superficie affronta una grande varietà di temi. Tale complessità si è riscontrata anche nell’ampiezza delle interpretazioni e nelle discussioni critiche nel corso dei decenni. In questo senso, ecco le parole di Giulio Trevisani, scrittore, critico e autore, nel 1957, di una importante opera sulla storia del teatro napoletano, che ammette di aver dovuto modificare nel tempo le sue idee in proposito. La citazione che segue è tratta da un articolo apparso su L’Unità del 25 aprile 1958.

“Natale in casa Cupiello è stata giudicata, a suo tempo, dalla critica come una commedia che risente dell’influenza crepuscolare dominante in molti testi (Bovio, Murolo) del teatro napoletano postdigiacomiano. Anche chi scrive queste note espresse questa opinione che un successivo ripensamento ha modificato. Il riferimento al crepuscolarismo sottolinea soltanto uno degli aspetti della commedia, ne mette in evidenza soltanto il clima ed il dramma realistico che scaturisce dal contrasto fra questo carattere e la vita. […] Ma soprattutto occorre, per Natale in casa Cupiello, porre in rilievo un elemento di grande importanza, cioè la potente carica di grottesco. […] Si preannunzia, in questa commedia, quell’umorismo tragico che, dopo la maturazione dolorosa e pensosa degli anni di guerra, costituirà l’elemento fondamentale della poetica di Eduardo.” (Giulio Trevisani, L’Unità, Milano, 25 aprile 1958).

Perché, allora, il pubblico di oggi continua a ritrovarsi nei personaggi di una commedia scritta e ambientata quasi un secolo fa? Forse perché questo testo, pur descrivendo la vicenda di una famiglia degli anni ’30, lo fa rendendola universale e, quindi, fuori dal tempo. Renzo Tian nel Messaggero del 7 maggio del ’76 scrive:

“Rivedendola oggi si rimane colpiti per almeno un paio di ragioni, la commedia di Eduardo ci tocca in modo quasi magico […] perché è una non-storia, che esce dai confini del verosimile e della descrizione per arrivare nel territorio della visione e del simbolo”

Per finire, quella che segue è la spiegazione di Antonio Latella, regista tra i più noti in Europa, che ha allestito una importante rilettura di “Natale in casa Cupiello” alla fine del 2014, in occasione del trentennale della morte di Eduardo. La citazione è tratta dalle note di regia di quell’allestimento.

“La stella cometa illumina un presepe dietro il quale abbiamo messo tutto quello che non vogliamo vedere o che non vogliamo accettare, mentre arrivano le feste. La famiglia e le sue relazioni interne. La casa e gli equilibri che governa. Il carrozzone da trainare per un’altra madre coraggio. Quello che i genitori vogliono e quello che i figli fanno, le aspirazioni degli uni e la libertà degli altri, come si dovrebbe essere e come si vuole apparire;  vuoti  di  senso  sempre  più  difficili  da  colmare  che  diventano  risacche  di risentimento, di odio, di un perbenismo formale diventato un abito troppo stretto per le emozioni e i sentimenti. E poi i parenti, i vicini, gli altri. Generazioni si avvicendano e sono portatrici di valori diversi, distanti, inconciliabili, dagli esiti imprevedibili. Sguardi pronti a diventare giudizi e a indurci in comportamenti che qualcuno ha assunto come adeguati. Tutti sono immersi in un rituale funebre di interessi e di apparenze.
Tutti sono schiavi di un dedalo di aspettative scontate, immobili come i personaggi del presepe ma non ci sono nascite in vista.”

Ed era ancora domenica.

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La domenica stava finendo. In televisione c’era il film con Totò. Erano le sette e mezza di sera e fuori era già scuro. Dalla finestra veniva il chiarore giallino di un lampione. E si è spento tutto. 

Nel buio assoluto, un tremore diventò sconquasso; un boato, urlo a molte voci: di mobili, di suppellettili, di muri che gemevano, si spezzavano, crollavano. Forse urla di persone.

Per caso, qualcuno registrò il suono di quei 90 secondi lunghi come l’attesa del prossimo respiro. Il pavimento e le pareti smisero di essere corpi solidi, immobili, pianeggianti. Si stava in piedi come foglie al vento. Però si doveva scappare, e subito. La porte di casa fremevano per diventare trappole. Si doveva uscire, scendere milioni di scale, correre in strada, scansando cornicioni e cavi elettrici tranciati, scalcianti.

A pensarci ora, nessuno di noi ebbe molte possibilità di uscirne vivo. Ma non ce ne rendevamo conto. Una volta in salvo trovammo il tempo di guardare il cielo, osservare le strane luci che vi erano apparse e, finalmente, di aver paura. I morti furono quasi tremila. In più di duecentocinquantamila restammo senza casa. Avevo ancora una famiglia ed era ancora domenica.

Dopo vennero le notti a dormire in macchina o da parenti con la casa ancora agibile. Ci abituammo al paesaggio con macerie. Chiunque abbia affrontato un terremoto, sa bene cosa voglia dire. Ad ogni nuovo sisma, ovunque sia, vediamo nei telegiornali le stesse scene. E ci pare di essere anche noi lì, insieme alle persone che ne sono colpite. È inevitabile. Non si finisce mai di essere terremotati.

Oggi non parliamo di teatro, ma della nostra storia. Il 23 novembre di trentasei anni fa l’Irpinia, la Basilicata, la Campania furono devastate dal terremoto. Molti di noi, nella Filodrammatica Partenopea, ne sono stati testimoni diretti. Forse per questo viene naturale mettere da parte per un attimo i documenti d’epoca, le immagini, i servizi giornalistici, e pensare alle nostre storie personali, “minori”, che raccontano il terremoto dal punto di vista di chi l’ha vissuto.

La storia del canarino abbandonato nella fuga e morto lì, nalla sua gabbietta. La casa dei nonni in cui si rifugiarono figli, generi, nuore e nipoti, tutti vicini. La scarpa perduta per le scale, che nessuno tornò mai a riprendere. L’operaio che lavorava di fronte a casa che quelle scale le salì di corsa, in mezzo ai crolli, perché al quinto piano aveva una moglie ed una bambina neonata da salvare…

Cosa ricordate di quell’evento? Se volete, lo spazio nei commenti è aperto a qualsiasi contributo.
Ricordiamo che è ancora attiva la raccolta fondi via SMS attraverso il numero solidale 45500 a favore della popolazione colpita dalle scosse dei mesi scorsi.

Cupiello… alla radio!

Foto: Enciclopedia della donne

Isabella Quarantotti con Eduardo (foto: Enciclopedia della donne)

Nel 1959 Eduardo realizzò e diresse le versioni radiofoniche di alcune sue opere. Tra queste, Natale in casa Cupiello, in un’allestimento molto particolare.
Vi troviamo infatti Pietro De Vico nella parte di Tommasino e nei panni di Concetta, Pupella Maggio. La stessa parte, nella versione televisiva del 1962 verrà invece affidata all’attrice Nina De Padova, con Tommasino affidato ancora a De Vico. Ritroveremo Pupella Maggio in un secondo allestimento televisivo, quello del 1977, con Luca De Filippo che interpreta Tommasino.

Altra curiosità? La voce guida che descrive gli ambienti e le scene in questa edizione radiofonica è la scrittrice Isabella Quarantotti, che all’epoca collaborava con la RAI ed era sposata in seconde nozze con Alec Smith, un poeta inglese.

Non sappiamo se questa fu l’occasione in cui conobbe Eduardo, ma sappiamo che nel 1965 diventerà sua compagna. I due si sposarono nel 1977 nel teatro San Ferdinando, di proprietà del drammaturgo napoletano.

Qui sotto, i link per ascoltare la trasmissione RAI originale.

 

La “gravidanza di quattro anni” di Eduardo

Il Natale in casa Cupiello di Eduardo non è sempre stato come lo conosciamo oggi. Fu invece, secondo le sue stesse parole, un «parto trigemino con una gravidanza durata quattro anni».
Nacque come atto unico umoristico e come tale debuttò nel 1931 al teatro Kursaal di Napoli. Corrispondeva a quello che nel testo definitivo è il secondo atto, ambientato nel giorno della vigilia di Natale. Questa prima versione presentava la struttura tradizionalmente adottata dal teatro farsesco, scarpettiano, da cui i De Filippo provenivano.

L’anno dopo, Eduardo aggiunse un prologo – l’attuale primo atto – ambientato il giorno prima. Ora gli spettatori potevano osservare i personaggi nella vita quotidiana, potevano conoscerli e comprenderne le reazioni più o meno comiche del secondo atto. La commedia assunse in tal modo una sfumatura più umana, l’umorismo, uno sfondo drammatico e le situazioni grottesche presero un retrogusto tragico. “Natale in casa Cupiello”, improvvisamente, non era più una farsa, pur conservandone la leggerezza di linguaggio.
La versione in due atti debuttò nel 1932, al teatro Sannazaro, ma la straordinaria evoluzione del testo eduardiano non era ancora finita. Nel 1934 venne aggiunto il terzo atto, ambientato tre giorni dopo. Gli eventi di Natale hanno colpito il capofamiglia Luca in modo così violento da costringerlo a letto, dove lo troviamo in fin di vita. La sua morte sembrerebbe una conclusione banale, ma lo è solo a prima vista.

Dietro la naturale pietà verso il moribondo, infatti, non c’è alcuna assoluzione. Luca non è un innocente. Di fronte all’incomunicabilità e alle divisioni nella sua famiglia, si è rifugiato in un mondo finto, di cartapesta e terracotta. Di fronte al disordine da governare, ha preferito fare il presepe, dove ogni cosa è preordinata, anche lo scorrere dell’acqua, e non ci sono imprevisti. Perfino sul letto di morte non rinuncia a fuggire dalla realtà.
Per Eduardo, Luca è un padre che si è rifiutato di fare il padre, lasciando tutto il peso dei problemi quotidiani alla moglie Concetta. Per lui non può esserci perdono né redenzione: al suo capezzale non appare mai, né viene nominato, un prete.

Da questo punto di vista, è difficile non pensare ad un collegamento autobiografico. Forse, però, questa è una lettura semplicistica. La figura del vecchio-bambino, perso nel suo mondo e legato alle tradizioni natalizie, potrebbe infatti provenire dal ricordo dei nonni materni dei De Filippo. Ad essi rimandano direttamente, e non può essere solo un caso, i nomi dei coniugi, Luca e Concetta. Ma anche la descrizione che Peppino ci ha lasciato, nella sua autobiografia, del nonno Luca sembra corrispondere al carattere del personaggio del “Natale“.

Comunque la si voglia leggere, “Natale in casa Cupiello” rimane un’opera fondamentale nella storia del teatro italiano e napoletano. Emblematica è la sua stessa gestazione, che trasforma un atto unico legato ancora al teatro ottocentesco leggero e disimpegnato in un testo che indaga in modo spietato nella disgregazione di una famiglia i cui membri, incapaci di comunicare tra loro, riescono soltanto a farsi del male. Tematiche – l’incomunicabilità, lo scontro generazionale – che oggi, ad oltre ottant’anni di distanza, continuano a rendere estremamente attuale questa commedia tragica.

 

(Nelle foto, alcuni scatti da “Natale in casa Cupiello” della Filodrammatica Partenopea, dicembre 2015)