Archivio 23 Novembre 2016

Ed era ancora domenica.

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La domenica stava finendo. In televisione c’era il film con Totò. Erano le sette e mezza di sera e fuori era già scuro. Dalla finestra veniva il chiarore giallino di un lampione. E si è spento tutto. 

Nel buio assoluto, un tremore diventò sconquasso; un boato, urlo a molte voci: di mobili, di suppellettili, di muri che gemevano, si spezzavano, crollavano. Forse urla di persone.

Per caso, qualcuno registrò il suono di quei 90 secondi lunghi come l’attesa del prossimo respiro. Il pavimento e le pareti smisero di essere corpi solidi, immobili, pianeggianti. Si stava in piedi come foglie al vento. Però si doveva scappare, e subito. La porte di casa fremevano per diventare trappole. Si doveva uscire, scendere milioni di scale, correre in strada, scansando cornicioni e cavi elettrici tranciati, scalcianti.

A pensarci ora, nessuno di noi ebbe molte possibilità di uscirne vivo. Ma non ce ne rendevamo conto. Una volta in salvo trovammo il tempo di guardare il cielo, osservare le strane luci che vi erano apparse e, finalmente, di aver paura. I morti furono quasi tremila. In più di duecentocinquantamila restammo senza casa. Avevo ancora una famiglia ed era ancora domenica.

Dopo vennero le notti a dormire in macchina o da parenti con la casa ancora agibile. Ci abituammo al paesaggio con macerie. Chiunque abbia affrontato un terremoto, sa bene cosa voglia dire. Ad ogni nuovo sisma, ovunque sia, vediamo nei telegiornali le stesse scene. E ci pare di essere anche noi lì, insieme alle persone che ne sono colpite. È inevitabile. Non si finisce mai di essere terremotati.

Oggi non parliamo di teatro, ma della nostra storia. Il 23 novembre di trentasei anni fa l’Irpinia, la Basilicata, la Campania furono devastate dal terremoto. Molti di noi, nella Filodrammatica Partenopea, ne sono stati testimoni diretti. Forse per questo viene naturale mettere da parte per un attimo i documenti d’epoca, le immagini, i servizi giornalistici, e pensare alle nostre storie personali, “minori”, che raccontano il terremoto dal punto di vista di chi l’ha vissuto.

La storia del canarino abbandonato nella fuga e morto lì, nalla sua gabbietta. La casa dei nonni in cui si rifugiarono figli, generi, nuore e nipoti, tutti vicini. La scarpa perduta per le scale, che nessuno tornò mai a riprendere. L’operaio che lavorava di fronte a casa che quelle scale le salì di corsa, in mezzo ai crolli, perché al quinto piano aveva una moglie ed una bambina neonata da salvare…

Cosa ricordate di quell’evento? Se volete, lo spazio nei commenti è aperto a qualsiasi contributo.
Ricordiamo che è ancora attiva la raccolta fondi via SMS attraverso il numero solidale 45500 a favore della popolazione colpita dalle scosse dei mesi scorsi.

Cupiello… alla radio!

Foto: Enciclopedia della donne

Isabella Quarantotti con Eduardo (foto: Enciclopedia della donne)

Nel 1959 Eduardo realizzò e diresse le versioni radiofoniche di alcune sue opere. Tra queste, Natale in casa Cupiello, in un’allestimento molto particolare.
Vi troviamo infatti Pietro De Vico nella parte di Tommasino e nei panni di Concetta, Pupella Maggio. La stessa parte, nella versione televisiva del 1962 verrà invece affidata all’attrice Nina De Padova, con Tommasino affidato ancora a De Vico. Ritroveremo Pupella Maggio in un secondo allestimento televisivo, quello del 1977, con Luca De Filippo che interpreta Tommasino.

Altra curiosità? La voce guida che descrive gli ambienti e le scene in questa edizione radiofonica è la scrittrice Isabella Quarantotti, che all’epoca collaborava con la RAI ed era sposata in seconde nozze con Alec Smith, un poeta inglese.

Non sappiamo se questa fu l’occasione in cui conobbe Eduardo, ma sappiamo che nel 1965 diventerà sua compagna. I due si sposarono nel 1977 nel teatro San Ferdinando, di proprietà del drammaturgo napoletano.

Qui sotto, i link per ascoltare la trasmissione RAI originale.

 

La “gravidanza di quattro anni” di Eduardo

Il Natale in casa Cupiello di Eduardo non è sempre stato come lo conosciamo oggi. Fu invece, secondo le sue stesse parole, un «parto trigemino con una gravidanza durata quattro anni».
Nacque come atto unico umoristico e come tale debuttò nel 1931 al teatro Kursaal di Napoli. Corrispondeva a quello che nel testo definitivo è il secondo atto, ambientato nel giorno della vigilia di Natale. Questa prima versione presentava la struttura tradizionalmente adottata dal teatro farsesco, scarpettiano, da cui i De Filippo provenivano.

L’anno dopo, Eduardo aggiunse un prologo – l’attuale primo atto – ambientato il giorno prima. Ora gli spettatori potevano osservare i personaggi nella vita quotidiana, potevano conoscerli e comprenderne le reazioni più o meno comiche del secondo atto. La commedia assunse in tal modo una sfumatura più umana, l’umorismo, uno sfondo drammatico e le situazioni grottesche presero un retrogusto tragico. “Natale in casa Cupiello”, improvvisamente, non era più una farsa, pur conservandone la leggerezza di linguaggio.
La versione in due atti debuttò nel 1932, al teatro Sannazaro, ma la straordinaria evoluzione del testo eduardiano non era ancora finita. Nel 1934 venne aggiunto il terzo atto, ambientato tre giorni dopo. Gli eventi di Natale hanno colpito il capofamiglia Luca in modo così violento da costringerlo a letto, dove lo troviamo in fin di vita. La sua morte sembrerebbe una conclusione banale, ma lo è solo a prima vista.

Dietro la naturale pietà verso il moribondo, infatti, non c’è alcuna assoluzione. Luca non è un innocente. Di fronte all’incomunicabilità e alle divisioni nella sua famiglia, si è rifugiato in un mondo finto, di cartapesta e terracotta. Di fronte al disordine da governare, ha preferito fare il presepe, dove ogni cosa è preordinata, anche lo scorrere dell’acqua, e non ci sono imprevisti. Perfino sul letto di morte non rinuncia a fuggire dalla realtà.
Per Eduardo, Luca è un padre che si è rifiutato di fare il padre, lasciando tutto il peso dei problemi quotidiani alla moglie Concetta. Per lui non può esserci perdono né redenzione: al suo capezzale non appare mai, né viene nominato, un prete.

Da questo punto di vista, è difficile non pensare ad un collegamento autobiografico. Forse, però, questa è una lettura semplicistica. La figura del vecchio-bambino, perso nel suo mondo e legato alle tradizioni natalizie, potrebbe infatti provenire dal ricordo dei nonni materni dei De Filippo. Ad essi rimandano direttamente, e non può essere solo un caso, i nomi dei coniugi, Luca e Concetta. Ma anche la descrizione che Peppino ci ha lasciato, nella sua autobiografia, del nonno Luca sembra corrispondere al carattere del personaggio del “Natale“.

Comunque la si voglia leggere, “Natale in casa Cupiello” rimane un’opera fondamentale nella storia del teatro italiano e napoletano. Emblematica è la sua stessa gestazione, che trasforma un atto unico legato ancora al teatro ottocentesco leggero e disimpegnato in un testo che indaga in modo spietato nella disgregazione di una famiglia i cui membri, incapaci di comunicare tra loro, riescono soltanto a farsi del male. Tematiche – l’incomunicabilità, lo scontro generazionale – che oggi, ad oltre ottant’anni di distanza, continuano a rendere estremamente attuale questa commedia tragica.

 

(Nelle foto, alcuni scatti da “Natale in casa Cupiello” della Filodrammatica Partenopea, dicembre 2015)

Eduardo e il Teatro San Ferdinando

Il San Ferdinando dopo i bombardamenti

Il San Ferdinando di Napoli dopo i bombardamenti

Dopo i bombardamenti del 1943 era ridotto in macerie. Del Teatro San Ferdinando, costruito nel 1791, rimanevano riconoscibili solo una parte del palcoscenico e brandelli dei quattro ordini di palchi originari.

Eduardo De Filippo nel 1948 decise di acquistare quel cumulo di macerie e ricostruire il teatro. L’impresa richiese sei anni. Eduardo vi impegnò tutti i risparmi e dovette indebitarsi con le banche per pagare i lavori.

Nel 1954 il nuovo San Ferdinando viene inaugurato. Per l’occasione, Eduardo pubblica un libro celebrativo, di grande formato, “Eduardo De Filippo e il Teatro San Ferdinando”, da cui sono tratte le immagini di questa pagina ed il testo che segue, scritto, in napoletano, dallo stesso Eduardo.

 

Napulitane belle, vinticinche, trent’anne fa, si quaccheduno m’avesse ditto ca io aveva addeventà padrone ‘e nu teatro, ‘a parola mia d’onore, l’avarria risposto: – “Amico, tu piccerillo sì ghiuto c”a capa nterra “! –eduardo_maninfaccia

Mprimmeso pecché, allora, ‘a carta ‘e ciento lire jeva fujenno… figurateve ca ‘o primmo biglietto ‘e mille lire… v”e rricurdate chelli fogliamolle  cu chella riquadratura auta ddoje dete, cu tutt’angiulille disignate ‘ncoppa, culor sanguinaccio… ca me parevano tanta tappetielle pe’ vicino ‘o lietto… dunque: uno ‘e chisti tappetielle, ‘o vedette sulamente all’aità ‘e trent’anne.

Quanno me truvaie chella carta ‘e mille lire mmano, me parette nu suonno. Vuie pazziate. Tanno, p’abbuscà na carta ‘e mille lire sana sana, voglio dicere na carta ‘e mille lirec”a putevo mettere ‘o pizzo dicenno: – “Chesta nun se tocca!”… – aveva jettà ‘o sango minimo pe’ tre mise, a dduje spettacule ‘o juorno e na prova ‘a matina n’copp”o tiatro Nuovo. Mprimmeso pe’ cchesto, ve stevo dicenno, e po’ pecché io a trent’anne ‘a penzavo ‘e tutt’ata manera.

Quanno me dicevano: – “Ma pecché nun t’accatte na casarella ‘a tant”o mese? “… e pe’ fa che cosa? pe’ fa ‘a figura ca fa cu me ‘o patrone ‘e casa, ‘o quale quanno se presenta ‘a fine ‘o mese pe se piglià chilli quatto cienteseme ‘e mesatella, nun se capisce si ‘o padrone ‘e casa è isso o songh’io.

Cumm”a primma intratura, quanno ‘o pover’ommo me vene a cerca’ ‘a mesata, ‘o faccio aspetta’ na mez’oretta for”a porta: po’ quanno buono buono
me so’ deciso, e ‘o faccio trasi’, si nun le dico: – “Assettateve” – nun s’assetta. Allerta, mmiez”a stanza, c”o cappiello mmano e c”a paura ncuorpo ‘e fa’ palla corta, cu chill’uocchie ‘e cestarielle… pare ca te cerca ‘a carità. E io cu chella prùbbeca a ‘o mese ca lle dongo (quanno ce ‘a dongo) faccio ‘o padrone dint”a casa soia. Isso s’adda j spelliccianno quanno m’adda manna’ ‘o stagnaro pecché ‘o rubbinetto s’è rutto; quanno m’adda manna’ ‘o fravecatore pecché ll’asteco scorre; ‘o ferraro pecché s’è scatenata ‘a ringhiera d”o balcone… e si nun pava ‘e tasse, ave l’esproprio… e ‘a casa ca isso se penzava ch’era d”a soia, pe’ via d”o cuntratto ‘e compra vendita ca tene astipato, se l’accatta n’ato, ncopp”o Tribunale, c”a cannela. E pe’ me, inquilino, ‘a mesata o s”a piglia isso o chillo ca se l’ha accattata ncopp”o Tribunale c”a cannela, è ‘a stessa cosa:

Allora faciteme accapì, chi è ‘o padrone ‘e casa: chillo ca se vene a piglia’ ‘a mesata ‘a fine ‘o mese, o chillo che ‘a pava e fa aspetta’ ‘o pover’ommo fore ‘a porta, mez’ora?

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Il Teatro San Ferdinando ricostruito, nel 1954

Comme me venette ‘ncapa ‘e fraveca’ stu teatro, nun v”o saccio dicere… a me nun me vo’ trasì ‘ncapo ca songo ‘o padrone. Pecché, scusate: Vuie quanno v’avite accattato nu palco o na pultrona, pe’ chelli ddoie ore ca dura ‘o spettaculo, site patrune vuie. Insomma voglio dicere c a songhe patrune tutte chille ca s’accattano ‘o biglietto, e traseno, e tutte chille che trasarranno quanno nuie simme muorte tuttu quante.

E io v”o ddico comme me stesse cunfessanno, dint”a stu teatro, io faccio ‘a figura ‘e chillu pover’ommo che v’aggio ditto primmo, ‘o quale aspettava mez’ora for”a porta, quanno se veneva a piglia’ ‘a mesata, ‘a fin”o mese.

Qui, qualche informazione in più sulla storia del Teatro San Ferdinando.

Spiritismo a Napoli: razionalità e scetticismo partenopei

Roberto Bracco non è un nome oggi tra i più noti. Eppure è stato un commediografo napoletano di fama mondiale.
Iniziò giovanissimo la carriera di giornalista e quella, lunga e prestigiosa, di commediografo e scrittore. Fu critico d’arte e teatrale, autore di versi, canzoni e racconti dialettali e soggetti per film. Per il teatro realizzò numerosissime opere di grande successo in Italia e all’estero.
Fu autore assai innovativo, che anticipò il teatro “psicologico” di Pirandello e fu a lungo candidato al premio Nobel. Le pressioni del regime fascista – di cui Bracco fu oppositore – ne impedirono il conferimento.

Nel 1886, appena venticinquenne, Bracco scrisse un libello sulla moda dello spiritismo che si stava diffondendo in Italia. Infastidito dall’irrazionalità truffaldina delle sedute spiritiche e richiamandosi allo studio scientifico dei fenomeni naturali, Bracco si lancia in una vera e propria satira dissacrante – e divertente da leggere oggi – contro i sedicenti medium.

Spiritismo è quéll’oggetto
Che fa muovere il mobilio,
E fa sempre un beli’ effetto
A chi restalo a guardar

L’opuscolo, firmato con il consueto pseudonimo “Baby” col quale scriveva sul Corriere Del Mattino, scatenò una vivacissima polemica tra i sostenitori delle superstizioni spiritistiche ed i suoi detrattori. Le centocinquantamila copie di “Spiritismo” andarono rapidamente esaurite e furono presto introvabili. Nel 1907 l’editore Francesco Perrella convinse Bracco ad autorizzarne una riedizione integrale.spiritismo

Nella copia in nostro possesso vengono così raccolti il testo originale, articoli e lettere successive che ricostruiscono la polemica suscitata, oltre a documenti, descrizioni e verbali di sedute spiritiche “contraffatte” avvenute a Napoli nell’epoca dell’attività di Eusapia Paladino.

Si tratta di una testimonianza concreta e inconfutabile sul pensiero razionale a Napoli nell’800, in barba a qualsiasi luogo comune sulla superstiziosità storica della città partenopea, già patria di Giambattista Vico e del “nolano” Giordano Bruno.