Il Natale in casa Cupiello di Eduardo non è sempre stato come lo conosciamo oggi. Fu invece, secondo le sue stesse parole, un «parto trigemino con una gravidanza durata quattro anni».
Nacque come atto unico umoristico e come tale debuttò nel 1931 al teatro Kursaal di Napoli. Corrispondeva a quello che nel testo definitivo è il secondo atto, ambientato nel giorno della vigilia di Natale. Questa prima versione presentava la struttura tradizionalmente adottata dal teatro farsesco, scarpettiano, da cui i De Filippo provenivano.

L’anno dopo, Eduardo aggiunse un prologo – l’attuale primo atto – ambientato il giorno prima. Ora gli spettatori potevano osservare i personaggi nella vita quotidiana, potevano conoscerli e comprenderne le reazioni più o meno comiche del secondo atto. La commedia assunse in tal modo una sfumatura più umana, l’umorismo, uno sfondo drammatico e le situazioni grottesche presero un retrogusto tragico. “Natale in casa Cupiello”, improvvisamente, non era più una farsa, pur conservandone la leggerezza di linguaggio.
La versione in due atti debuttò nel 1932, al teatro Sannazaro, ma la straordinaria evoluzione del testo eduardiano non era ancora finita. Nel 1934 venne aggiunto il terzo atto, ambientato tre giorni dopo. Gli eventi di Natale hanno colpito il capofamiglia Luca in modo così violento da costringerlo a letto, dove lo troviamo in fin di vita. La sua morte sembrerebbe una conclusione banale, ma lo è solo a prima vista.

Dietro la naturale pietà verso il moribondo, infatti, non c’è alcuna assoluzione. Luca non è un innocente. Di fronte all’incomunicabilità e alle divisioni nella sua famiglia, si è rifugiato in un mondo finto, di cartapesta e terracotta. Di fronte al disordine da governare, ha preferito fare il presepe, dove ogni cosa è preordinata, anche lo scorrere dell’acqua, e non ci sono imprevisti. Perfino sul letto di morte non rinuncia a fuggire dalla realtà.
Per Eduardo, Luca è un padre che si è rifiutato di fare il padre, lasciando tutto il peso dei problemi quotidiani alla moglie Concetta. Per lui non può esserci perdono né redenzione: al suo capezzale non appare mai, né viene nominato, un prete.

Da questo punto di vista, è difficile non pensare ad un collegamento autobiografico. Forse, però, questa è una lettura semplicistica. La figura del vecchio-bambino, perso nel suo mondo e legato alle tradizioni natalizie, potrebbe infatti provenire dal ricordo dei nonni materni dei De Filippo. Ad essi rimandano direttamente, e non può essere solo un caso, i nomi dei coniugi, Luca e Concetta. Ma anche la descrizione che Peppino ci ha lasciato, nella sua autobiografia, del nonno Luca sembra corrispondere al carattere del personaggio del “Natale“.

Comunque la si voglia leggere, “Natale in casa Cupiello” rimane un’opera fondamentale nella storia del teatro italiano e napoletano. Emblematica è la sua stessa gestazione, che trasforma un atto unico legato ancora al teatro ottocentesco leggero e disimpegnato in un testo che indaga in modo spietato nella disgregazione di una famiglia i cui membri, incapaci di comunicare tra loro, riescono soltanto a farsi del male. Tematiche – l’incomunicabilità, lo scontro generazionale – che oggi, ad oltre ottant’anni di distanza, continuano a rendere estremamente attuale questa commedia tragica.

 

(Nelle foto, alcuni scatti da “Natale in casa Cupiello” della Filodrammatica Partenopea, dicembre 2015)